Alice ha sedici anni e continua a prendere peso. Mette chili come se fossero armature. Più il corpo cresce, più urla: guardami. Ma nessuno la guarda davvero. Sua madre, Marta, diventa ogni giorno più magra, svuotata. Quasi un’ombra. In questo scenario prende forma L’estate che ho ucciso mio nonno, romanzo di Giulia Lombezzi che porta in superficie dinamiche familiari dolorose e mai risolte.
Al centro, lui: il nonno. Un uomo autoritario, che si trasferisce da loro in seguito a un problema di salute e riempie la casa del suo fumo e del suo potere. Un tiranno che impone, accusa, giudica. Nulla è mai abbastanza: le cure non bastano, le badanti non vanno bene. Il senso di colpa si insinua, come sempre, nella figlia. Le parti sono già scritte: Marta accudisce e si consuma. Alice osserva, incassa, ingurgita cibo e rabbia. E comincia a pensare l’impensabile: se lui non ci fosse, forse tornerebbero a vivere.
L’estate che ho ucciso mio nonno: corpi che gridano
Questo romanzo non è però solo rabbia. È consapevolezza che cresce. Alice capisce che sua madre è stata spezzata, annullata da un padre manipolatore. E, nel disperato tentativo di salvarla, si ritrova a combattere un drago troppo grande. Nel frattempo cerca spazio nel mondo, mentre il corpo si fa campo di battaglia. Chi si ingrossa per esistere, chi svanisce per non pesare più. Disturbi alimentari, dipendenza affettiva, sbalzi dell’adolescenza: questo libro parla con schiettezza, ma anche tenerezza, di corpi che si deformano per farsi sentire, di silenzi che tagliano più delle parole, di famiglie dove l’amore è confuso con la sudditanza.
Eppure, nella tensione continua tra oppressione e fuga, si affaccia una forma di resistenza. Alice non è solo vittima: la sua voce interiore, ironica e rabbiosa, diventa un contrappunto necessario, un modo per rifiutare un copione che sembrava già deciso. In questo sta la sua forza: nel tentativo di riscrivere il destino, anche quando tutto sembra opporsi.
Una scrittura che non fa sconti
Giulia Lombezzi scrive con una voce che alterna ironia e forte impatto. Si ride e sorride, ma poi ci si incupisce di fronte alle ferite familiari e si ingoia un boccone amaro. La scrittura è scorrevole, viva, si legge tutta d’un fiato; da leggera a tagliente in un balzo. La fluidità del racconto accompagna anche i temi più duri, senza mai banalizzarli.
L’estate che ho ucciso mio nonno è il ritratto nitido di una prigione affettiva, ma è anche un romanzo che apre una fessura alla possibilità: che si possa spezzare il filo, che ci si possa salvare. E, forse, che si possa imparare a volersi bene in un modo diverso.
Il libro: L’estate che ho ucciso mio nonno, Giulia Lombezzi, Bollati Boringhieri



